FULVIA ZUDIC
L’anima istriana nell’arte e nella poetica di Fulvia Zudič
Il detto evangelico Nemo propheta in patria talvolta viene contraddetto in maniera chiara come dimostra ampiamente Fulvia Zudič con il suo impegno artistico e organizzativo a Pirano e con il rilievo accordato dall’Istria alla sua opera di valorizzazione e salvaguardia dei valori autoctoni attraverso un fine lavoro di approfondimento e innesto culturale nella contemporaneità. Lo scorso anno sono stati presentati due momenti importanti di studio della poetica di Fulvia Zudič con due mostre, l’una alla Galleria Herman Pečarič di Pirano in collaborazione con le locali Gallerie Costiere, l’altra a Palazzo Pretorio di Capodistria organizzata dalla Galleria “Insula” di Isola.
Sin dai tempi dell’impegno quasi esclusivo nel design e nella realizzazione di costumi teatrali l’artista mette in evidenza una marcata disponibilità ad avvolgere lo spazio con il senso di una fantasia capace ogni volta di accendere orizzonti su squarci di fisicità, fatta evaporare verso esiti di rarefazione concettuale. La forza di uno sviluppo magmatico del colore e del segno, fusi insieme in una sintesi dinamica, viaggia nella dimensione dell’espressionismo astratto che fa crescere in lei l’adesione convinta alle ragioni fondanti della ricerca, cioè il segno, il gesto e l’elemento cromatico. La geometria è il dato di supporto e di espressione, con il quale l’artista si misura in esiti differenziati; il tema della rotondità, emblema della perfezione leggibile anche in natura, accalora le presenze all’interno della tela, fungendo talora da piattaforma per un’avventura nella realtà del colore, che si fa energia in movimento.
Dopo il Corso di Disegno, moda e Costume a Lubiana, la formazione continua all’Accademia di Belle Arti di Venezia, dove ha un maestro, Fabrizio Plessi, generoso di stimoli e suggerimenti fatti confluire da Fulvia Zudič dentro un’espressione originale e riconoscibile. L’artista che vive e lavora tra di Pirano e Sicciole sa procedere sul duplice binario di uno scavo dentro le ragioni della creatività e, nel contempo, organizzare e dare corpo alla struttura culturale della Comunità degli italiani di Pirano. In ogni caso l’universo in cui va a intercettare le suggestioni più sottili da trasformare in esiti d’arte è dato dalla storia, dalla natura, dalle atmosfere e dal carattere delle genti d’Istria. Pertanto si può dire che il genius loci incide sulla poetica senza peraltro condizionare in senso provinciale i risultati che ogni volta, pur inquadrando situazioni note, aprono squarci di autentica novità per come possono essere interpretate talune sfumature del reale da un occhio attento nelle sue fibre più segrete.
La prima evidenza del lavoro dell’artista è offerta dal suo prismatico proiettarsi con eclettica disinvoltura in molteplici settori, dalla pittura alla ceramica, dalla moda al design e all’illustrazione, dalla costumistica alla scenografia; in tali ambiti ha sempre in mente la direttrice concettuale della disciplina compositiva con una duttilità tipica di una mente sollecitata a rispondere ai pungoli esterni con la sottolineatura di un’appartenenza al mondo da cui proviene. E se la dilatazione delle esperienze è piuttosto estesa, si deve ammettere che al clamore festoso delle iniziative coreutiche e teatrali si accompagna anche una volontà di silenzio che ammanta le sue esperienze con il segno, il colore, la materia e il ritmo di superficie, quello evocato da un repertorio di forme che mutuano la loro essenza dalla geometria elementare. Il colore pieno si incardina in contorni dalla forte marcatura segnica, posti a essenzializzare un’idea di nervatura primaria dello spazio, entro cui si situano cose di natura, manufatti dell’uomo,
L’itinerario evolutivo di Fulvia Zudič muove da due polarità, in dialettica relazione tra loro: da una parte l’adesione al reale, con un intento che va dalla rappresentazione alla finalità evocativa; dall’altra la scomposizione dell’immagine in un magma cromatico vicino alla formazione delle origini; nel rapporto dialettico, in entrambe le soluzioni compositive, l’artista macera contenuti ed esprime un fervore di ricerca, fatto derivare dall’aderenza alla forma oggettuale; questa è portata a decomporsi in una serie di risultati, in cui resta dominante il riferimento all’esistenza attraverso la sensazione scaturita dal colore e dal segno, dalla stratificazione delle stesure al gesto che le produce. Nell’ispirazione dell’artista e nell’indole della donna c’è una precisa inclinazione al racconto di sé, alla confessione dei suoi umori nel contatto con il mondo, un’evidente spinta alla condivisione di ogni traccia emotiva che si imprima nella sua anima. Le esperienze di lavoro in occasioni internazionali a stretto contatto con altri artisti, provenienti da diverse lande di sensibilità e regioni geografiche, instillano in Fulvia Zudič il tratto di una consapevolezza che la sua ispirazione e il tessuto umano e la storia dell’Istria finiscono per incontrarsi lungo un unico crinale; questo le consente di attingere alle forme e alle atmosfere di casa, di coniugare repertorio memoriale e scenario dell’attualità in un’opera risonante di calde motivazioni interiori.
In tal modo l’operazione di selezione e sintesi è tesa a eleggere la casa come l’involucro primario della logica familiare e sociale in genere. In questa scelta giocano essenzialmente due fattori, quello simbologico, legato al nesso sentimentale del tema, e quello formale, in cui l’artista va a reperire suggerimenti geometrici nel concerto di linee che governano la realtà architettonica. Il prelievo di presenze dal tale campo si realizza in una composizione capace di far perdere a quegli stessi elementi la loro rigidità razionale e di farli entrare in un circuito formale di sempre nuove determinazioni di senso. L’artista lo fa sfibrando i contorni delle cose in un contesto nel quale tutto assume la cadenza di un tempo arcaico, eppur trasferito nella dimensione del presente, dove convivono spunti diversi, provenienti da più luoghi e da numerosi tempi passati. I piccoli centri storici dell’Istria si fanno angoli di raccoglimento, da cui mutua andamenti lineari, per articolare uno spazio che non ha profondità; quasi una scenografia è disposta a fare da sfondo a un’emozione, provata a contatto con quella realtà, al pensiero del passato, al rapporto con il presente, una sorta di fondale della memoria che si accende sulla superficie assegnando ad alcuni elementi architettonici il valore simbolico di tracce visibili con cui il presente veste i processi storici, evoluti fino a oggi. In Fulvia Zudič convergono due tensioni, entrambe fortemente cariche, una la precisa caratterizzazione che si innesta nei luoghi dove è vissuta, l’altra un’apertura e un ascolto delle principali voci del clima internazionale. Quindi il villaggio natale e quello globale giocano nell’ispirazione come poli di una dialettica sulla cui linea si sviluppa la poetica con un continuo gioco di rimandi tra paesaggio esterno e interno. L’Istria, la sua storia consegnata alla registrazione dei documenti architettonici, le saline, il mare, sono scaturigini da cui sgorga piena la grande messe di motivi che connotano l’opera.
L’impianto disegnativo in matita si evidenzia anche per lo spiazzamento della sovrapposizione cromatica, come dire una voluta vibrazione tra il momento di origine della tela e la sua veste finale.
Il momento di costruzione del quadro vive per lungo tempo anche sull’utilizzo di elementi come la carta smeriglio applicata con la sovrapposizione di carta adesiva, a determinare la fisicità concettuale di un mucchietto di sale, quasi una piramide in un deserto dove la sabbia è in realtà il sale stesso. La sperimentazione si sviluppa con carte diverse (nella combinazione con acqua e colla), anche quelle per aquiloni a dare una patina ulteriore di poeticità alla pittura. Le strisce parallele, ricavate dalla visione dei binari di scorrimento dei carrelli per il trasporto del sale, ricordano la primitiva essenzialità delle staccionate di Spacal.
Zudič conserva nella memoria, alimentata dagli effetti cromatici e visivi delle saline fin da quando, bambina, ha di fronte a sé la realtà immediatamente sottostante alla sua residenza di San Bortolo e la luminosità cangiante prodotta da quei bacini di cristallizzazione del prodotto sopra la collina di Sicciole , a Parezzago, dove spesso si reca ancora a dipingere traendo spunto dai colori, dalle forme, dagli aromi di un paesaggio irripetibile per i mutamenti di cui è capace nel corso di una medesima giornata.
La pittura vive su una minima pellicola che, a tratti, si consolida in piccolo rilievo creato con strisce di carta velina, sommossa in ondularità come appena percettibili trasalimenti di superficie. Il giallo, il bianco, il grigio (il nero), l’ocra sono tinte che vestono le facciate, immerse nel silenzio di una storia di cui il fruitore è chiamato a decifrare gli sviluppi; finestre che prospettano nella loro semplicità di linee il buio della parte interna, sottoportici che rinviano a ulteriori sviluppi abitativi, quasi percorsi dell’esistenza quotidiana. Il risalto del paesaggio è tracciato da poche linee, secondo una geometria elementare che essenzializza la realtà. Finestre marcate dal contorno di pietra portante e completamente scure mentre l’idea della profondità è data dal disegno in contrasto con una luce che appiattisce la scena come fosse davvero quella di uno sfondo teatrale. Lo sguardo è fisso ad alcuni elementi, come le trifore, dove il colore lascia emergere la grana costitutiva della tela e il disegno rimarca una realtà per la quale cessa di essere semplicemente contorno; invero tra la traccia a matita o a carboncino e il colore c’è sempre un debordamento, una dialettica in atto tra la realtà e l’idea che la modifica in stilema rappresentativo di un luogo, di un’area, di un popolo.
La pennellata distende a volte un colore poco denso, da cui emerge una tessitura di filamenti che creano vibrazioni di superficie, accenni a un’illusione di profondità in assenza di prospettiva. Il paesaggio istriano, pur liberamente interpretato, mantiene dei tratti di riconoscibilità in alcuni elementi fondamentali, la facciata delle case, la chiesa, il campanile veneto; i segni lo tracciano con immediatezza, dando al colore, quasi sempre derivato dalle terre o, comunque, dalla naturalità della regione (i cieli resi tersi e traslucidi dalla bora, la vegetazione caratteristica del sommacco, il saliscendi di una morfologia ricca di peculiarità multiple, la roccia calcarea, la pietra bianca, il mare), e usato in una gamma ridotta, quasi spinto a una volontà di ricondurre l’ambiente a un’unica tinta dominante, il blu il rosso mattone, il giallo, il verde. E quando i colori declinano verso le tonalità fredde o acide ben rappresentano l’ampiezza delle formulazioni interne, stati d’animo, emozioni, scatti di sensibilità, capaci di generare quadri che parlano di realtà esterna, ma rimandano al paesaggio interiore dell’artista.
Enzo Santese